La mela è da sempre simbolo di immortalità e saggezza, frutto prediletto di molte dee dell’antichità. Ha ispirato miti e leggende sul suo conto che ancora oggi ci tramandiamo e ricordiamo con sguardo volto al mistero.
Eppure, com’è accaduto anche in altri ambiti, questo frutto dai mille portenti è stato demonizzato, arrivando a rappresentare perfino l’allontanamento estremo dalla natura divina.
Le parole e i miti, tuttavia, ci raccontano storie più antiche di ciò che crederemmo, narrazioni precedenti ai tempi relativamente recenti del patriarcato. Il nostro termine mela deriva dal latino malum. È interessante fermarsi a riflettere sul significato di quest’ultima parola, che il dizionario traduce con: male, colpa, delitto, disgrazia, danno, svantaggio, pena, castigo, fatica, malattia. Tutto il contrario di ciò che il frutto della conoscenza rappresentava ai primordi. E subito nella nostra mente si delinea l’immagine di un giardino paradisiaco, di una donna, un uomo e un serpente…
Venus Verticordia, Dante Gabriel Rossetti
Eppure l’Eden non è un’invenzione cristiana. Un sacro e splendido hortus, posto nell’estremo Occidente del mondo, faceva parte già della mitologia dell’antica Grecia, dov’era conosciuto con il nome di Giardino delle Esperidi, carico di mele d’oro dalle molteplici virtù. Per i mortali era proibito accedervi, e il melo era sorvegliato dalle Esperidi – ninfe figlie della Notte – e dal drago Ladone, che montava la guardia avvolgendo le sue spire intorno al tronco dell’albero sacro. Il giardino apparteneva a Era e fu la Madre Terra a regalarle il melo dai frutti d’oro. Ecco, dunque, che già in questo mito scorgiamo le avvisaglie di culti più antichi, per i quali la mela era simbolo della Grande Madre.
Questo frutto era sacro anche all’arcaica Afrodite, non semplice dea dell’amore frivolo e della bellezza, bensì della vita, della Primavera, della fertilità, della gioia e dell’amore che genera ogni cosa in natura. Tagliando la mela a metà in senso verticale, vi si ritrova la forma della sacra vulva femminile, la porta attraverso la quale si accede all’esistenza terrena. Se la si taglia in senso orizzontale, invece, i suoi semi disegnano una stella perfetta che, insieme alla vulva, è simbolo caro ad Afrodite.
Le mele sono anche protagoniste della mitologia celtica, dove vengono donate agli eroi da donne bellissime, messaggere dell’Oltremondo. Sono cibo divino che non si consuma, ma che anzi si rigenera mangiandolo, simbolo della conoscenza che non può giungere al termine, poiché la vita è fatta di continuo apprendimento. Ma rappresentano anche il nutrimento inesauribile offerto dall’unione col divino, che mai lascia affamati o insoddisfatti.
Le tradizioni bretone e gallese ci parlano poi di Avalon, la mitica Insula pomorum che rievoca nel nostro immaginario le storie di Artù e dei suoi cavalieri, di Mago Merlino, della Dama del Lago e di Morgana. Avalon deriverebbe dalle radici indoeuropee aval– e abel-, che significano mela, per l’appunto, anche se un’altra possibile etimologia connette il nome dell’isola leggendaria con l’Annwn, l’Oltremondo regno di fate e delle anime dei defunti. E Avalon è conosciuta anche come l’Isola Fortunata, poiché produce ogni cosa da sé. Su di essa la terra si coltiva da sola e produce fiori e frutti in abbondanza, non esistono la fame e la malattia per chi vi abita, caratteristiche, queste, che non solo la collegano alla nostra immagine del Paradiso, ma anche all’immortalità offerta dalle mele.
Il mondo celtico conserva anche la memoria di altre terre amene che, come Avalon, sono isole governate da divinità ed eroi, luoghi in cui l’abbondanza regna sovrana. Tir na nÓg, situata a Occidente, è l’Oltretomba celtico in cui giungono uomini e donne che in vita hanno compiuto grandi gesta, ma alcuni fortunati possono accedervi anche da vivi, come accadde al bardo Ossian, ivi condotto dalla dolce Niamh dai biondi capelli, la divina figlia del re del mare (per saperne di più, puoi leggere il mio articolo: “Ossian e Niamh tra Spirito e Materia“). È terra meravigliosa, colma di gioie e le cui seduzioni sono ben più piacevoli di quelle terrene. Un altro nome dell’Oltremondo celtico è MagMell, La Pianura della Gioia, terra promessa dell’Anima dalla quale tutti gli esseri umani provengono e alla quale ritornano nei cicli eterni della vita.
E, senza andare poi tanto lontano, anche la Liguria, in un certo senso, ha la sua Avalon. Come abbiamo visto, l’Isola delle Mele avrebbe la sua etimologia da abel-, avel-, abal-, afel-, apel- ecc., tutti morfemi che non solo rimandano alla simbologia della mela, ma anche alla dea gallica Belisama e alle api, dal cui miele si ricavava la bevanda sacra per eccellenza, l’idromele. Nella Liguria di Ponente sono diverse le testimonianze della toponomastica che si riferiscono proprio a questa antica divinità e che rimandano al pantheon celtico, nonché alle leggende britanniche. Ne sono un esempio Colle Melosa, il Monte Pietravecchia (in origine Priaveglia, dove ‘veglia’ stava per ‘ape’) e il Monte Abellio, così come il Colle Belenda, tre luoghi non distanti tra loro che recano ricordi di tempi ormai lontani e testimonianze importanti di quel mondo.
Colle Melosa, poi, per via della sua collocazione è spesso attraversato da passaggi di nuvole basse, che lo avvolgono nella mistica nebbia che appartenne anche ad Avalon. In queste terre abitavano i celto-liguri con i loro déi, e qui sono stati rinvenuti importanti monumenti archeologici (non ancora riconosciuti) quali menhir, dolmen e cerchi di pietre che di certo non suscitano lo stesso scalpore di Stonehenge, ma esistono ed è importante restituire loro il giusto valore.
Siamo spesso propensi a credere che fuori dai confini della nostra terra esistano posti dall’incredibile energia, ci affanniamo alla ricerca di qualcosa che non possiamo raggiungere e, così facendo, dimentichiamo la cosa più importante: che il divino risiede dentro di noi e ben più vicino di quanto oseremmo immaginare. A convincerci di questo vengono in nostro aiuto non solo l’origine dei termini, ma anche gli studi svolti da professionisti, che ci raccontano ormai da tempo che fu il nostro Mediterraneo la culla di molte culture e tradizioni; Avalon, Viviana e Morgana, dunque, sarebbero nati proprio sulle sponde del nostro mare, trasformati nel tempo e riadattati ai luoghi. Sono stati rinnovati i riti e le leggende che li riguardano, ma la loro essenza permane la stessa.
Avalon è un’isola abitata da dee che sono anche maghe, e questo nel Mediterraneo lo ritroviamo nell’isola di Eea, magica dimora della celebre Circe, accompagnata da ninfe. La sua isola è anche conosciuta col nome di Aiaia, “terra fertile, umida”. Su un’isola vivevano e operavano la loro arte pure Medea e Pasifae, altre dee e maghe della tradizione greca, e così fu pure per la bretone e gallese Morgana. In passato ogni cosa era permeata dalla Dea, per cui non deve sorprendere che le stesse caratteristiche che si presentano in un luogo si ritrovino pressoché identiche anche a molti chilometri di distanza.
Circe porge la coppa a Ulisse, J. W. Waterhouse
La Dea dei primordi esisteva in ogni espressione della natura. Questo significa che era elargitrice di vita, ma anche dispensatrice della morte e di tutte quelle manifestazioni che noi oggi riteniamo erroneamente negative. La dea celtica irlandese Morrigan e la Fata Morgana del ciclo arturiano rappresentano sicuramente bene gli aspetti più oscuri della Grande Madre.
In ambito mediterraneo le maghe erano conosciute soprattutto per la loro conoscenza di erbe e intrugli, con i quali potevano guarire o accelerare la morte. Uno dei popoli mitici che fece la storia d’Irlanda, quello rimasto più impresso nell’immaginario comune, è quello dei Tuatha dé Danann, il popolo dei figli della dea Danu. Le origini di questo popolo sono diverse, ma secondo una delle numerose leggende essi giunsero in Irlanda dal Mediterraneo orientale. Miti e racconti leggendari possiedono un fondo di verità e gli studiosi hanno individuato una possibile origine meridionale di un popolo che giunse in Irlanda, come narrano le storie contenute nel Libro delle Invasioni. È così, dunque, che venne introdotta la figura della maga celtica che fu tratta dal substrato di credenze mediterranee, e a dimostrarlo sono diverse prove linguistiche e anche alcune usanze rituali del mondo celtico, come quella delle nozze sacre, che veniva praticata in origine presso i Sumeri. Danu, Ana, Anu sono dee celtiche che hanno in comune una connessione con la terra e con i suoi aspetti fertili e materni. In questi nomi di divinità si ritrova anche la sillaba “an” che designava nell’antichità tutte le dee madri legate alle acque: in tutti i nomi di divinità nei quali compare, tale sillaba denota l’essere Madre, offre il principio creativo tipico del femminile. Lo ritroviamo anche nella dea Morrigan della tradizione irlandese, definita la Grande Regina, e così pure in Morgana. Secondo ipotesi accreditate, il culto di Morrigan giunse in Gran Bretagna, dove fu trasformata nella volubile e temibile Morgana.
© Marc Simonetti. Fonte Artstation
La radice del nome di queste due affascinanti figure femminili, poi, è da ricercarsi ancora una volta nel Mediterraneo, dove mor– sta per “mare”. Interessante notare a questo proposito come la Morrigan sia spesso legata alla terra nei miti che la riguardano, mentre Morgana abbia un legame particolare con le acque sacre (e marine) che circondano la leggendaria Avalon. In alcuni miti, Morrigan appare come figlia del dio sovrano del mare che aveva la sua dimora nelle isole a Ovest dell’Irlanda, là dove risiedeva pure l’Oltremondo celtico, come abbiamo visto. Ed ecco, quindi, che la connessione tra Morrigan e il mare viene spiegata, laddove era anche la divinità legata indissolubilmente alla morte, tanto che in molti la ricordano per il suo ruolo psicopompo. Di origine mediterranea è pure il seguito di 26 guerriere della dea irlandese, che ricorda le Amazzoni dell’Artemide nostrana.
Morgana fu profonda conoscitrice della magia e nelle vicende che la riguardano si riscontra un tipico sapore mediterraneo. La Morrigan aveva un eroe prediletto, che ostacolava e al contempo proteggeva: il mitico CuChulainn. Questo si trasmise anche a Morgana, sorella del prode Artù, di cui diviene l’amante: questa unione che noi oggi definiremmo incestuosa, per gli antichi aveva significati profondi, che stentiamo a comprendere. La storia delle dee mediterranee è costellata di unioni tra consanguinei, tradizione che si ritrova appunto anche nel ciclo arturiano, oltre che nelle leggende legate alla Morrigan irlandese. Il rapporto tra la dea e il suo paredro stava a rappresentare l’unione massima, il ritrovare l’unicità perfetta tra un maschile e un femminile che si compenetravano e completavano a vicenda.
La figura di Morgana, così come accadde anche con la Morrigan, fu ridimensionata dal patriarcato, per cui oggi ci appare come una miniatura di se stessa e di ciò che doveva apparire alle origini. La troviamo infatti vendicativa, capricciosa, tessitrice di intrighi… tutte caratteristiche aggiunte a posteriori su un quadro potente e meraviglioso, quello che ai primordi rappresentava certamente una dea e una maga fiera, implacabile, sicuramente rappresentante degli aspetti più oscuri della vita, ma mai bellicosa, caratteristica, questa, appartenente alla visione patriarcale della realtà. Morgana era maga prodigiosa, in grado di realizzare ogni cosa volesse, caratteristiche che ereditò dalla Morrigan.
Morgan Le Fay, Frederick Sandys
Circe, Medea, Pasifae, Era, Demetra, Persefone, Ecate, Artemide… e ancora Iside, Bona Dea e Morgana. Da esse e in esse nacque e si sviluppò il culto della mediterranea Potnia Phyton, Signora delle Piante, colei che era dea, maga, sapiente, e conosceva i segreti di erbe, filtri e tinture. L’arte dei pharmaka è sempre appartenuta per natura più alle donne, e dal mondo antico fino a tempi recenti si tramandano storie di maghe belle e terribili che presiedevano – o alle quali erano dedicati – giardini incantati, paradisi di fiori e di frutti sorvegliati da creature divine femminili. Erano per l’appunto luoghi traboccanti di mele, dalla collocazione misteriosa e imprecisata, spesso isole su cui l’eroe giungeva dopo infiniti perigli, oppure circondati da mura che era vietato oltrepassare. Le dee maghe dell’antichità sopravvissero anche in epoca medievale, quando confluirono nelle Dominae Herbarum, guaritrici e levatrici profondamente rispettate dalla comunità, almeno fino a che non giunsero le prime accuse di stregoneria (per approfondire, puoi leggere l’articolo “Le Dominae Herbarum, guaritrici dei poveri“).
Il Giardino delle Esperidi, Avalon, MagMell, Tir na nÓg, Aiaia, sono terre mitiche che, oltre a rappresentare un mondo magico spesso connesso con l’oltretomba, possono essere raggiunte dentro di noi, in quello spazio sacro insito in noi e che abbiamo ricevuto per diritto divino. Sono luoghi che ancora ci insegnano a trovare e coltivare il giardino interiore, che altro non è che la nostra parte divina, più vicina di quanto osiamo immaginare. E quella parte sacra, non detiene forse la conoscenza del mondo, dell’umanità e dell’universo intero? Non è forse immortale, a differenza del corpo che abitiamo? Ed ecco tornare a galla la mela, sfera perfetta e metafora del cosmo, sempre accostata alle mani e alle cure femminili, come abbiamo visto.
Dall’antichità e fino ai giorni nostri, la donna è depositaria di arti e conoscenza, maga per natura e grande iniziatrice capace di spalancare le porte dell’invisibile. Non sorprende che la mela fosse associata a lei e alla Grande Madre, visti gli attributi femminili che presenta al suo interno. La vulva che si ritrova tagliandola a metà è l’accesso al mondo terreno e all’utero materno, contiene in sé la vita e la morte, e, dunque, la conoscenza del mondo intero e il segreto dell’immortalità.
Credits:
© testo Melania D'Alessandro per MagMel
Immagine di copertina: A Masque for the Four Seasons, Walter Crane. Le immagini prive di didascalia sono state tratte da Pixabay.
Bibliografia:
Da Circe a Morgana. Scritti di Momolina Marconi, a cura di Anna De Nardis, ed. Venexia.
Le Dee perdute dell’antica Grecia, Charlene Spretnak, ed. Venexia.
The Morrigan. Meeting the Great Queens, Morgan Daimler.
Florario, Alfredo Cattabiani, ed. Mondadori
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