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La Valle Argentina e le sue grotte: oltre il velo della leggenda tra la vita e la morte.

Le valli dell’entroterra ligure somigliano spesso a luoghi incantati, soprattutto in certi scorci nascosti, conosciuti e raggiungibili solo da pochi. Il silenzio coglie i viandanti che vi si avventurano, insieme alla tipica sensazione di non essere soli e di essere osservati.

Tra questi siti dal sapore ancestrale sono comprese anche le caverne di cui la Liguria è particolarmente ricca (si pensi, per esempio, a quelle dei Balzi Rossi a Ventimiglia, e a quelle di Toirano e delle Arene Candide nel savonese).

Sono sorte leggende su queste spelonche incastonate tra la terra e il mare, tra il mondo in superficie e quello infero della morte. Sono storie che in pochi, ormai, ricordano e vogliono tramandare, ma la loro essenza è tenace quanto l’edera che avviluppa i tronchi degli alberi e tiene insieme con le sue radici i sassi antichi di certe vecchie case. L’anima della leggenda non si esaurisce né si arrende, sopravvive, si aggrappa alle labbra di individui prediletti che ancora amano tramandare parole sussurrate in tempi lontani. Non si sa più se certe storie abbiano avuto origine proprio qui, in questa lingua di terra bagnata dal mare e abbracciata dai monti, o se invece si mescolò ad altre di luoghi distanti dalla Liguria, ma hanno degli aspetti curiosi in comune con altre parti del mondo e vale la pena provare a sentire col cuore cosa esse vogliano ancora comunicarci, quali voci intendano far giungere fino a noi.

fate liguri

Si dice, dunque, che tanto tempo fa le grotte fossero abitate da donne di piccola statura e dall’aspetto spaventoso, chiamate fate da alcuni, donnine da altri. Nessuno osava disturbarle nelle loro dimore; chi lo faceva, scompariva per non fare ritorno. Per questo erano considerate malvagie e assai pericolose e ci si tenevano alla larga da loro.

Ma queste donne non si limitavano a restare nei loro antri. Uscivano spesso all’aria aperta e amavano trascorrere il loro tempo nuotando nei torrenti e nei laghetti di cui l’entroterra ligure è ricco. Dopo essersi immerse nell’acqua e aver goduto della sua freschezza, restavano a riva e lì si prendevano infinita cura dei loro capelli con un piccolo pettine. Questo strumento, tuttavia, non serviva solo a mantenere ordinate le loro chiome, ma era strettamente connesso con le grotte in cui avevano la dimora: se una di loro avesse perso il pettine, non sarebbe più potuta tornare a casa, e questo sarebbe stato fonte di grande sofferenza per la fata.

Un giorno di un tempo ormai perduto accadde proprio che una di queste piccole donne perse il suo pettine, che le cadde di mano e fu portato via dalla corrente del ruscello. A nulla valsero i tentativi di ritrovarlo e lei si disperò. Urlò e pianse tutte le sue lacrime, vagando in lungo e in largo per la valle senza mai riuscire a ritrovare la via che la portasse alla sua grotta né a impugnare di nuovo  il suo prezioso pettine.

acque sacre culti femminili

Mentre la fata errava senza meta, un giovane uomo era intento a pescare sulle rive del torrente. D’un tratto la sua attenzione fu rapita da uno strano, piccolissimo oggetto che si era incastrato tra due pietre, sul greto del corso d’acqua. Lo afferrò tra il pollice e l’indice e lo guardò con lo stupore negli occhi. Conosceva ciò che si diceva riguardo le piccole donne delle grotte e non ebbe dubbi sulla provenienza dell’oggetto. Era un uomo coraggioso e di buon cuore, così non si fece intimorire da ciò che si raccontava sul conto delle fate. Voleva restituire il pettine alla sua proprietaria e non ci fu modo di fargli cambiare idea, così partì.

Sapeva che la sua non sarebbe stata un’impresa difficile: la fata che aveva perso il pettine non poteva essere lontana e non si sarebbe potuta nascondere nella sua grotta, per cui era solo questione di tempo affinché la trovasse. Infine, come previsto, il giovane trovò la piccola donna in riva al torrente, con gli occhi gonfi e arrossati di pianto. La chiamò, mostrandole il pettine che aveva trovato, e la fata, sorpresa, smise di piangere e sorrise. Per ringraziare il buon cuore del ragazzo, lo ricompensò donandogli ricchezze che avrebbero fatto invidia a un re e da allora in poi la sua famiglia visse per sempre nella salute e nell’agio e, così si racconta, ancora oggi i suoi discendenti godono di tali fortune.

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La storia presenta diverse somiglianze con altre numerose fiabe popolari di stampo medievale e ha dei punti in comune anche con la cultura celtica, con la quale la Liguria entrò in contatto. Non è così difficile, ormai, leggere il fondo di verità nascosto tra le pieghe della leggenda, una verità ben più antica del Medioevo e persino dell’arrivo dei Celti.

Come Marija Gimbutas ha rivelato e dimostrato con i suoi approfonditi studi sull’archeomitologia, la divinità europea delle origini era femmina. Non dobbiamo immaginarcela come una Dea altezzosa e distante, né dobbiamo pensare che la Grande Dea Madre della Preistoria fosse un idolo. Lei era espressione di tutte le cose viventi e comunicava attraverso di esse. Nell’immaginario arcaico, dunque, gli elementi naturali divennero parti manifeste del corpo della Dea: le acque erano le sue fertili secrezioni vaginali, la terra il suo ventre fecondo, le montagne i suoi prosperi seni, le cavità naturali erano la sua magica e misteriosa porta conoscitrice della vita e della morte, la vulva. Tutto esprimeva la sua grandezza, il suo essere femmina e, perciò, vita.

grotta valle argentina

Gentilmente concessa da MMM a I colori del vento


Le donne di piccola statura della leggenda, nonostante siano ricordate come esseri pericolosi, malvagi e dall’aspetto sgradevole, raccontano in realtà molto di quegli antichi culti remoti che abbiamo dimenticato e che la cultura indoeuropea, patriarcale e cristiana poi hanno distorto e tentato di occultare e cancellare.

Gli studi e le prove archeologiche ci dimostrano che le società primitive erano matrifocali, incentrate sulla donna. A lei spettava il compito di custodire i segreti della Dea, di elargirne i doni ed essere la sua manifestazione vivente. Sono giunte fino ai giorni nostri testimonianze di una ritualità femminile legata al culto dei defunti e ai momenti di passaggio in genere. La donna era Dea per natura, ciclica ella stessa come la vita, la morte e la rigenerazione che ogni mese avvenivano nel suo grembo e in tutto il creato. Ecco perché era lei a conoscere i segreti dell’esistenza. In questo contesto non sorprende, dunque, che le protagoniste della leggenda siano creature femminili.

grande dea madre

Nelle caverne, che in Valle Argentina furono utilizzate unicamente per i riti sepolcrali poiché troppo piccole per fungere da dimora, si riproduceva la simbologia del sacro grembo e di tutti i suoi aspetti. È nel ventre della donna che avvengono le più sorprendenti, magiche e misteriose trasformazioni. Nelle sue acque si sviluppa la vita; il buio uterino era quello della morte, ma anche ciò che precede l’esistenza terrena; il suo ciclico sangue – un tempo donato periodicamente alla Madre Terra – conteneva il miracolo della rigenerazione. Non sorprende, dunque, che per via del potere che fino ad allora le era stato riconosciuto, la cultura patriarcale si trovò a dover reinterpretare la sacralità della donna come qualcosa di malvagio dal quale guardarsi. Non riuscendo a estirpare del tutto l’antico culto, la nuova religione pose nelle grotte statue di Vergini e Madonne, che ancora oggi possono essere avvistate in Valle Argentina persino nei luoghi più irraggiungibili. I nuovi arrivati, dunque, sostituirono la Dea e le donne che ne officiavano il culto con Maria, colei che è piena di grazia così come lo erano le vergini antiche.

grotte madonna culti femminili

Gentilmente concessa da MMM a I colori del vento


Gli ehi delle loro voci risuonano ancora oggi sulle montagne, celati dal velo di un credo, quello cristiano, che  pur contro ogni suo volere testimonia tempi assai remoti. Tutto questo è comprensibile, poiché è ciò che fanno tutti i conquistatori con i popoli vinti. A non essere accettabili, piuttosto, sono l’oscurantismo in cui ancora viviamo e l’inconsapevolezza nei confronti del remoto passato dell’umanità di cui facciamo parte, che ci racconta una storia differente rispetto a quella propinata dai testi scolastici.

Le divine donne preistoriche legate alle grotte sono state defraudate della loro altezza – sia fisica che spirituale – e hanno assunto in questa leggenda un carattere malvagio, tanto che ci viene detto che chi si avventurava nelle loro dimore non avrebbe più fatto ritorno. Chi si apprestava a percorrere i sentieri che portavano alle grotte (e, quindi, alla Dea) abbandonava la retta via tracciata da Dio, in altre parole: era perduto per sempre. Prendendo in considerazione il contesto di appartenenza di questa leggenda, va detto, tuttavia, che il perdersi nella ricerca delle grotte abbia in sé anche un legame con la morfologia del territorio ligure, aspro e a tratti particolarmente scosceso, tanto che le caverne con accertate testimonianze preistoriche – soprattutto quelle della Valle Argentina – si trovano oggi in una posizione impervia e assai pericolosa. Non è difficile credere che per l’uomo di qualche secolo fa una tale spedizione potesse portare effettivamente alla morte.

grotta

Gentilmente concessa da MMM a I colori del vento


Nonostante il tentativo patriarcale di oscurare la grandezza delle dee e delle donne dei primordi, sono sopravvissuti elementi importanti del culto che fu e di ciò che rappresentava.

Nella storia si parla in particolare di uno strumento di fondamentale rilevanza senza il quale la vicenda non sussisterebbe: il pettine. A esso viene attribuita talmente tanta importanza da collegarlo strettamente alla grotta-madre. Il pettine, solitamente, è attribuito alle creature acquatiche, come ninfe e sirene. È curioso che qui sia associato a fate che appartengono a due elementi, anziché a uno soltanto: l’acqua e la terra. Era parte integrante di riti arcaici che vedevano nel “pettinare” le acque un gesto simbolico volto ad evocarne gli spiriti e l’energia. Per il suo legame con l’acqua e con la femminilità, rappresentata dalla chioma da mantenere fluente e ordinata, non sorprende che sia associato alla grotta che, come abbiamo visto, era un luogo fortemente legato alla Dea. Molte grotte sono inumidite da corsi d’acqua e laghi, come accade per esempio in quelle di Toirano (Savona), e questo rappresentava per i preistorici un chiaro rimando alle tiepide secrezioni femminili.

Non va dimenticato anche che nelle antiche società agricole di cacciatori-raccoglitrici si utilizzava uno strumento simile a un pettine (antenato del nostro rastrello) per propiziare la fertilità della terra.

Infine, viene in nostro aiuto anche un’analisi etimologica e linguistica della stessa parola “pettine”, che la collega all’apparato genitale femminile. La sua radice è la stessa di “pettignone”, sostantivo utilizzato anticamente per indicare il pube, ma anche i crini che circondano la vulva, secondo quanto riportato da Giovenale. Pettine è pure un altro nome per indicare la conchiglia e il mollusco, in particolare la capasanta; inoltre, la parola greca kteìs, che indica il mollusco, significa sia pettine che vulva.

pettini e conchiglie

Lo strumento della leggenda, dunque, è un chiaro riferimento non solo alla fertilità della Madre Terra e del suo grembo, ma anche al mondo ligure, diviso tra i monti e il mare e dei quali porta il sapore. Il pettine diviene qui chiave che consente di accedere a una realtà altra, magico talismano atto a dirigere sapientemente le energie del creato. È possibile che anticamente il pettine della storia fosse in realtà la valva di una conchiglia, che era spesso inserita nei corredi funebri rinvenuti nelle grotte, com’è emerso dai rilevamenti archeologici in Valle Argentina, precisamente nella Tana della Volpe (Triora) e nell’Arma della Gastéa (Borninga, presso il borgo di Realdo nel Comune di Triora). Non è difficile credere che le fate della storia si riferiscano a donne che avevano il sacro compito di accompagnare i defunti nel loro viaggio di rinascita, restituendoli al grembo della Madre con una ritualità specifica, a noi oggi sconosciuta. Questo si ricollega anche con quanto si diceva poc’anzi riguardo il non fare più ritorno dal ventre delle grotte per chi vi si avventurava. Riletto in questa chiave, dove il volto più oscuro della Dea si farebbe preponderante, anche l’epilogo della storia potrebbe assumere una sfumatura differente. Il ritrovamento del pettine da parte del giovane potrebbe essere visto alla stregua di un presagio, il segnale del suo prossimo ritorno al grembo della Madre cosmica, tant’è che si dice che non patì più per salute e povertà. Dalle leggende provenienti da tutto il mondo, soprattutto quelle riguardanti l’area celtica – che ebbe degli influssi anche sul territorio ligure – apprendiamo che il mondo fatato e quello oltremondano sono strettamente collegati. Chi vi accede non torna indietro, rimane in quel luogo sospeso nel tempo e nello spazio dove non esistono dolore e sofferenza. Lì il cibo è abbondante e sempre squisito, accompagnato dalle migliori bevande mai assaggiate da labbra umane, e la musica rallegra gli animi, caratteristiche che ritroviamo nel lieto finale della leggenda.

Un altro elemento utile a ricostruire l’importanza del culto della Dea è rappresentato da ciò che consegue la perdita della strada che conduce alla grotta casa-anima. Quando la donna-fata realizza di aver smarrito il suo pettine, viene sopraffatta dalla disperazione. È condannata a tutti gli effetti a un esilio, poiché ha perso il contatto con la sua femminilità (il pettine) e il suo mondo interiore (la grotta).

spiritualità naturale femminile

Questo evento reca con sé un significato assai profondo e di grande spessore che vale la pena indagare. Chi si allontana dalla strada della Madre è destinato a perdere se stesso, a separarsi dalla magica connessione con il ciclo vita-morte-vita, e ciò porta a catastrofiche conseguenze, le quali oggi sono sotto lo sguardo di tutti noi. Come la fata, anche noi abbiamo perduto il contatto con la Grande Madre, la fonte della nostra esistenza. Ci siamo scollegati da essa, ne viviamo separati e non ci riconosciamo più come sue estensioni. Insieme a questo abbiamo dimenticato il rapporto col sacro, trasformando in traumi i potenti momenti di passaggio che siamo chiamati ad affrontare durante la vita. Non viviamo più d’amore e armonia, ma di paure e conflitti che ci dilaniano dall’interno, perseguitandoci allo stesso modo in cui la perdita del pettine ha tormentato la fata. Tuttavia, il suo strazio è pure quello che fu delle donne che ai tempi in cui nacque questa versione della storia dovettero abbandonare il loro credo incentrato sulla Dea, pena la persecuzione.

Nei miti, nelle leggende e nelle fiabe riecheggia ancora la grandezza dei culti antichi, ma sono anche dirette testimonianze di una storia che attraverso di essi rivive e può essere riportata alla luce. Prossimamente visiteremo più da vicino le grotte della Valle Argentina, scavando in quel passato fatto di anfratti bui e di difficile interpretazione, ma che testimonia certamente riti arcaici femminili di cui abbiamo perso memoria.


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Immagine di copertina gentilmente concessa da MMM a I colori del vento.

 

Bibliografia:

  1. Le donne invisibili della Preistoria, Judy Foster, ed. Venexia (2019)

  2. Le dee perdute dell’Antica Grecia, Charlene Spretnak, ed. Venexia (2010)

  3. Le Vergini arcaiche, Leda Bearné, ed. della Terra di Mezzo (2016)

  4. Il fuoco nella testa. Uno studio sullo sciamanismo celtico, Tom Cowan, ed. Crisalide (2006)

  5. Nuovi dati sulle sepolture in grotta nella Liguria di Ponente, A. Del Lucchese e A. De Pascale, XLIII Riunione scientifica L’età del Rame in Italia.

  6. Sirene, Skye Alexander, ed. Venexia (2014)

  7. Da Morgana alle Winx, Massimo Izzi e Lavinia Petti, ed. Gremese (2011)

  8. La Dea nell’Antica Britannia. Miti, leggende, siti sacri, Kathy Jones, ed. Psiche2 (2013)

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