In quest'epoca in cui in molti si mettono al servizio, in cui tanti decidono di donare la propria esperienza e conoscenza ad altri affinché sia utile ed evolutiva, si può cadere in tanti e pericolosi tranelli.
Quello che potrebbe essere un nobile intento - quello di Servire - viene così macchiato ora dal sentirsi erroneamente "arrivati" e grandi, ora dal bisogno di ricevere stima e riconoscimento, ora dal tentare meccanicamente di sentirsi persone di valore e di successo, oltre che ribelli, diverse dalla "massa" ordinaria, realizzate, di successo.
Ma tra tutti i tranelli in cui ci si potrebbe imbattere nella via del Servizio - e ce ne sono davvero tanti - oggi vogliamo parlare di uno in particolare, più sotteso ancora, più subdolo.
Uno di questi, infatti, va a sposarsi con la forma mentis tipica del nostro tempo, quella dell'essere sempre prestanti, produttivi, perfetti, impeccabili, infallibili, "migliori".
Si tende a credere (erroneamente) che un maestro, una guida, un insegnante non debba sbagliare, né cadere.
Si viene a creare così una separazione invisibile ma profonda tra allievo e maestro, tra colui/colei che è già arrivato/a e coloro che apprendono i suoi insegnamenti. Una distinzione che non solo è dannosa e deleteria, ma che non dovrebbe neppure avere ragion d'essere per chi fa un lavoro su di sé.
In primis, perché la separazione non esiste (e non è una frase fatta). L'allievo e la guida sono un tutt'uno, pertanto la problematica che un allievo fa emergere riguarda anche chi lo guida, per Legge di Risonanza.
E questo è riscontrato anche in ambito terapeutico; a tal proposito basti fare una breve ricerca sul Dottor Ihaleakala Hew Len e sul risultato sorprendente del suo lavoro con i pazienti di una clinica psichiatrica.
Abbarbicarsi su un piedistallo senza voler ammettere le proprie cadute, volendo a tutti i costi sostenere la maschera dell'insegnante impeccabile, non solo alimenta i demoni interiori, ingrassandoli, ma è un atteggiamento che impedisce all'allievo di trovare guarigione, di godere di un insegnamento ben più immenso dell'orgoglio dietro cui ci si può trincerare "per paura di".
E, ovviamente, impedisce anche alla guida/insegnante/maestro di rendere utile anche a sé un momento importante di crescita. Perché non si smette mai veramente di essere allievi, e mantenere in sé questo stato di consapevolezza significa continuare ad attraversare l'esistenza terrena con il cuore di chi è sempre pronto a imparare ciò che l'Anima gli mette dinnanzi.
La spiritualità, quella vera, non si basa sulla produttività e sull'impeccabilità, né sul perfezionismo macchiato di giudizio.
Lo Spirito non vede errori, fallimenti, cadute... vede Opportunità. E' il nostro sguardo umano a vedere il disonore in uno scivolone o in una prova non superata.
Ma cosa significa, veramente, "superare"? Da dove nasce questo schema mentale? Perché ogni volta che si presenta un ostacolo, ci sentiamo costretti a superarlo, pena l'onta del fallimento?
A un bimbo che impara a camminare, non importa la meta, non la conosce neanche. Resta centrato nel qui e ora, senza neppure saperlo. Tenta con tutti i suoi sforzi di restare in equilibrio, di far forza sui muscoli, di coordinare i suoi movimenti. Cadrà mille volte, prima di comprendere come fare, di riuscire infine a camminare e poi a correre. Sta qui la sua meraviglia, in quel percorso che è Fede nelle sue capacità e in quelle dei suoi aiutanti (i genitori, in questo caso), nel suo impegno costante, nel suo imparare dagli errori, dagli scivoloni e persino dal dolore che potrà farsi.
La verità è che non importa affatto uscire vincenti da una prova, di qualsiasi natura essa sia. A importare davvero è il modo in cui la si attraversa, i passi che si compiono mentre ci si trova nel disagio, nello sforzo, nella difficoltà. Perché quel modus operandi condizionerà e determinerà la nostra crescita, non tanto il "superaramento", la "vittoria", il "successo". E' piuttosto lo stare nello stato di tensione che genera cambiamento, ed è quello necessario all'evoluzione, proprio come lo è per il bambino l'imparare a reggersi sulle proprie gambe traballanti e malferme.
Non è vero che "a un certo livello" (?) non si provino più rabbia, tristezza, nervosismo, attaccamento...
Non è vero che una guida non si arrabbi, che non provi più emozioni "negative", che non cada nei tranelli della personalità.
Non è vero che chi insegna sia necessariamente "arrivato" (ma arrivato dove, poi?).
Serve dirlo.
Serve prenderne coscienza.
Insegnare significa anche continuare a riconoscere le Opportunità di crescita che l'Anima offre costantemente e avere come intento sempre acceso quello di lavorare su di sé per portare alla luce ciò che resterebbe relegato nell'inconscio.
Nella nostra esperienza, abbiamo toccato con mano quanto le cadute di un insegnante possano risultare illuminanti per tutti.
Quanto l'umiltà di un maestro generi un campo di Gratitudine e Bellezza senza eguali.
Quanto l'ammissione della debolezza di una guida sia d'aiuto a molti, facendo scaturire energia di vera guarigione.
Per questo, a qualunque tappa del percorso di ricerca interiore vi troviate, noi consiglieremo sempre di non dimenticare mai di restare allievi, nell'Umiltà che è tipica del vero Mago Alchimista.
Tutte le immagini del presente articolo prive di didascalia sono tratte da Pixabay, con eccezione di quella di copertina, il cui autore è Scott Gustafson.
L'autore della citazione che dà il titolo all'articolo è sconosciuto.
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