Immagina di essere tranquillamente seduto a guardare la televisione. Di fianco a te, in una splendida culla bianca, c’è tuo figlio che dorme. E’ davvero piccolo. E’ appena nato. Ha pochi giorni di vita. E’ da poco uscito dall’ospedale.
Ti sei assicurato che fosse ben coperto, ogni tanto lo controlli per vedere se respira, se tutto va bene, gli accarezzi una manina, lievemente, per non svegliarlo e quel contatto breve ti emoziona. Ti siedi, nuovamente rapito dal programma televisivo ma, ad un certo punto, senti un lamento. Un tenue gemito proviene da quel lettino.
Ti alzi di corsa e vai a vedere che succede. Il piccolo si è svegliato e inizia a piagnucolare. Lo sollevi, lo prendi in braccio e provi a capire cosa lo disturba.
Dovrà essere cambiato? Avrà fame? Si è svegliato ma vuole dormire ancora? Ha male alla pancia? Qualcosa lo ha spaventato? Alla fine, per uno strano e misterioso senso della vita, riesci a capire che vuole il latte. Non basterà proporgli il seno materno, il pediatra ha stabilito che per lui ci vuole del latte artificiale e, questo latte, andrà messo nel biberon, mescolato all’acqua e fatto riscaldare. Tutti minuti che passano e che, in quel momento, mentre il bimbo inizia a piangere con sempre maggiore veemenza, appaiono eterni.
Noterai che, in quel mentre, ti sarà venuto spontaneo appoggiarlo al tuo petto, accarezzarlo, ninnarlo e fare buffi versi con la bocca nel tentativo di rassicurarlo.
Guardi le sue gote tenere, la sua pelle è delicata, morbida e grinzosa allo stesso tempo. E’ così piccolo che persino le sue unghie sono ancora morbide. Quelle lacrime che escono da quegli occhietti strizzati e quelle palpebre stropicciate ti fanno male e quella boccuccia spalancata, senza denti, che ora urla a più non posso ti agita. In quel momento, stai cercando di infondere in quell’esserino tutto il tuo amore, tutta la tua pace, tutta la tua attenzione, tutta la tua protezione.
Lo avvolgi con le tue braccia e baci il corpo, lo sfiori. E’ un essere innocente, vulnerabile, puro, che in quel momento ha “un problema”.
Ora, dimmi, quando tu hai un problema, probabilmente molto più serio dell’avere fame, ti comporti nei confronti di te stesso allo stesso modo in cui tratti quel neonato? Ti coccoli? Ti culli? Ti accarezzi? Ti baci? No. Sii sincero.
E perché no? Perché è da stupidi, vero? Immagina di vedere una persona adulta che si abbraccia con le sue stesse mani, con braccia quasi conserte che arrivano fin dietro alla schiena e con il viso un po’ inclinato verso una spalla si dondola. Poi si accarezza il viso, si bacia quella mano che passa delicatamente sotto al mento e sopra la testa ripetutamente… ti sembra ridicolo ammettilo.
Eppure, se immagini quella stessa persona catapultata indietro nel tempo, durante la sua infanzia, noterai che voleva proprio queste cose da sua mamma e da suo papà. Che le cercava smaniosa. Che, ancora più piccola, in fasce, le reclamava a gran voce come il più sano dei suoi diritti.
Quel bambino, eri tu. Quel bambino… sei tu! E rimani sempre tu anche se gli anni passano. Da adulto avrai comunque bisogno di quelle coccole e le cercherai nei figli, nella moglie, nel marito, nell’amico, persino dopo i contrasti con gli altri ma… puoi e devi dartele anche da solo.
Se pensi che questa sia una magra consolazione ti stai sbagliando di grosso. Nel momento stesso in cui ti coccoli, tutto il tuo stato fisico, e soprattutto psichico ed emotivo, inizia a giovarne e a stare bene realmente.
Se hai un dolore al corpo, esso si quieterà; se hai un malessere mentale, esso apparirà meno devastante. Credimi. Cullati, infonditi pace, armonia. Rassicurati. Come faresti con il tuo piccolo figlio che appoggi al tuo petto. Anche tu in quel momento di avvilimento sei come lui, vulnerabile, innocente, puro e soprattutto bisognoso d’amore. Il gesto fisico e concreto della carezza, vale a dire tangibile, aiuta ad avvallare il pensiero positivo che spesso, non basta. Tante volte si prova a scacciare il male con la mente, a vedere il lato bello della medaglia, a considerarsi nonostante tutto, perfetti. A perdonarsi… proprio come le filosofie che insegno ci spiegano ma, tante volte, tutto questo è difficile.
Grazie al contatto delle tue stesse braccia, delle labbra e delle mani sul tuo corpo, sulla tua pelle, sulle tue cellule nervose, questo apparirà più semplice. Chiamati per nome o utilizza un vezzeggiativo proprio come avrebbe fatto la tua mamma, o avresti voluto che facesse. Parlati con tono dolce a rassicurante. Prova a dirti che tutto andrà bene, che passerà, che sta già passando. Potrai anche emozionarti, commuoverti.
Quando diciamo di un animale che “si lecca le ferite” intendiamo proprio questo ma non lo facciamo mai. Non è solo una questione di anticorpi e di virtù della saliva in grado di disinfettare la lesione e uccidere i batteri. E’ molto di più.
Il cane, o il lupo, o il gatto, o il leone, etc… così facendo, si auto-donano dei benefici incredibili per prepararsi ad affrontare i giorni successivi stando nel miglior modo possibile.
L’animale non ha medici in quel momento, non ha consulenti e, molto spesso, neanche amici, perchè sovente, sono proprio gli altri componenti del branco a fargli male. Non ha che se stesso. Il suo contatto. Il suo angolino silenzioso e nascosto per usufruire di tutta la tranquillità necessaria.
Si è abituati a cercare il conforto in qualcuno, o si spera persino che gli altri evitino proprio di recarci dolore. Magari ci arrabbiamo anche, lamentandoci di essere soli e di non trovare nessuno disposto a consolarci… (quando noi invece, per gli altri, ci siamo sempre stati). Ebbene, impara a consolarti da solo per prima cosa. Devi avere uno strumento, uno scudo. Non puoi confidare sul fatto che nessuno mai ti faccia mai del male. Se accade, devi saper affrontare il momento… volendoti bene.
Immagina di prendere un esserino appena venuto al mondo, tenero, delicato e impaurito, come sei tu adesso e fagli capire, con tutti i tuoi mezzi, che non deve avere paura di nulla, e che la sofferenza, TU gliela porterai via.
photo alessiodileo.it – haisentito.it – medicitalia.it – amando.it
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