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Da Dee a Bàgiue – Storie di streghe a Triora, in Valle Argentina

Triora, nel cuore delle Alpi Liguri, è un borgo arroccato su un monte, ricco di fascino e che attira ogni anno visitatori e curiosi. Il suo magnetismo è dovuto alla sua storia antica e intrisa di capitoli assai dolorosi, ricordati ancora oggi durante le manifestazioni che animano questo gruppo di case di pietra, legno e ardesia. Triora è chiamata non a caso la Salem d’Italia, poiché fu teatro di uno tra i più feroci processi per stregoneria, sul finire del Cinquecento.

E, propro a partire dalle vicende storiche che segnarono la comunità del borgo, sono sorte leggende curiose riguardo queste donne che qui si chiamano Bàgiue o Bàggiure, ma anche sui luoghi che erano solite frequentare, visitabili ancora oggi.

Ci sono, poi, curiose coincidenze che, lette in chiave esoterica, aprono interessanti scenari che inducono alla riflessione. È il caso, per esempio, del quartiere triorese denominato Sambughea per via dei sambuchi che qui vi crescevano… e nella tradizione popolare il sambuco è caro alle fate così come alle streghe, legato all’oltremondo. Dopotutto, indagando fra le pieghe di certe leggende e certe storie, si scopre che fate e streghe hanno molto in comune, in fondo, ben più di quanto si possa pensare.

Tra superstizione, leggende e realtà.

Il termine “strega” è nato con accezione dispregiativa per designare tutte quelle donne che si credeva fossero in grado, con le loro malìe, di nuocere alle persone, soprattutto ai bambini, ma anche al bestiame e ai raccolti.

Tratto distintivo delle bagiue nostrane erano i capelli color rame, tinta assai temuta, tanto che persino il bestiame non poteva avere il pelo rosso. A riprova di ciò, le vacche della Valle Argentina hanno ancora il manto candido come la purezza, ma questo non bastava a proteggerle dalle fatture delle maliarde.

Quando gli animali non producevano latte o erano irrequieti e quando i neonati non smettevano di piangere, si diceva che fossero “abbaggiurati”, stregati, e c’era un solo modo per risolvere il problema: chiamare lo scacciabazure, un uomo, un mago in grado di sciogliere il maleficio. È quanto accaduto agli inizi del Novecento in due episodi documentati da Padre Ferraironi nella borgata di Bregalla, appartenente al territorio di Triora.

E fa riflettere il fatto che fosse una donna a fare del male, mentre era un uomo a dimostrarsi salvifico, poiché risanava ciò che era stato alterato e riportava l’equilibrio laddove era stato compromesso. Un concetto, questo, in linea con il pensiero patriarcale che vede la donna come fonte d’ogni male, guidata da basse pulsioni nonché essere malefico ispirato dal demonio. Questo modo di percepire la donna si pone in netto contrasto con il sentire delle precedenti società a stampo matriarcale, dove donna era sinonimo di Dea, natura e ciclicità della vita.

Molti erano i luoghi prediletti dalle bagiue per i loro convegni e divertimenti, e non si può dar loro torto, visti i panorami e i paesaggi che, a quanto si vocifera, erano scelti come sfondi delle loro riunioni e malefatte.

La Cabotina è in cima alla lista, oggi un nugolo di ruderi al limitare di una cupa foresta, dove le pietre accolgono spesso i ricci e le foglie dell’ippocastano. Un tempo era la zona più malfamata della città. Vi crescevano alberi di noce, andati distrutti con la prima guerra mondiale, che la tradizione popolare vuole donino preveggenza, ed erano piante consacrate alla dea Diana, a cui molte donne si appellavano ancora al tempo della caccia alle streghe.

Dalla Cabotina, si gode di un’ampia vista a strapiombo sulla valle, e forse per questo nacquero storie del famoso volo delle streghe, che potevano raggiungere in questo modo località lontane, come il Ciotto di San Lorenzo, che conserva un antichissimo menhir, e all’isola Gallinara, dove incontravano altre sorelle e congreghe dopo essersi trasformate in rapaci notturni.

C’è poi Lago Degno, una polla d’acqua scavata dal torrente e in cui si diceva che le bagiue evocassero il demonio in persona… ma non può esserci nulla di demoniaco in un luogo tanto incantevole. Qui, l’acqua, elemento essenziale della vita e che compone la maggior parte delle nostre cellule e di quelle del pianeta, scorre in poetica libertà. Avevano ottimi gusti, queste streghe, vere amanti del bello e della vita, se sceglievano con tanta cura i luoghi delle loro fughe.

E ancora oggi, su certe alture che incorniciano Triora, compaiono i cosiddetti cerchi delle streghe, situati in luoghi di grande bellezza, in cui pare di toccare il cielo e abbracciare l’essenza di tutte le cose.

Eppure, nonostante la loro tremenda fama, è emblematico il fatto che le storie a cui i Trioresi sono forse più affezionati le vedono misericordiose, benevole, come accade nella storia dei due bimbi che le streghe guarirono dalle gobbe, o come quella che vede una di loro consigliare un uomo della città dinnanzi alla Fontana di Campomavue, e che seguendo il suo consiglio, portò benessere e ricchezza a se stesso e a tutta la sua famiglia.

I due bambini gobbi e le bagiue

La leggenda vuole che nel paese, ai tempi, vivessero due bambini nati gobbi. L’uno era povero, l’altro aveva avuto la fortuna di nascere in una famiglia benestante e agiata. Tutti i bambini di Triora sapevano che quando sopraggiungeva il tramonto, non si sarebbero dovuti far cogliere impreparati: era l’ora in cui le porte cittadine venivano chiuse per la notte e il momento in cui le streghe divenivano più pericolose, poiché favorite dalle tenebre. Tuttavia, accadde che una sera il bimbo gobbo povero non riuscì a rientrare per tempo nella sua casa. Restò chiuso fuori dalle mura della città, nella spaventosa zona della Cabotina. La nebbia leggera saliva dal fiume, giù a valle, e solo i rapaci notturni osavano interrompere il silenzio. Il bubolio di un gufo fece sobbalzare il piccolo, che tuttavia tentò di non abbandonarsi alla paura, finché una donna vestita di stracci non gli venne incontro, toccando con la mano ossuta la sua deformità. Era spaventato, ma non lo diede a vedere, inghiottendo i suoi timori e dimostrando un coraggio che non possedeva. E giunsero altre donne insieme alla prima, che lo portarono in una delle case di pietra alla periferia della città. Lui si lasciò guidare, pregando che la sorte fosse clemente con lui, e così fu. Le donne lo nutrirono, gli diedero un luogo caldo in cui trascorrere la notte e massaggiarono la sua gobba, finché non cadde addormentato. Al suo risveglio, le donne erano sparite e con esse anche la sua gobba. Quando al mattino le porte del paese riaprirono, stentavano tutti a riconoscere il giovanotto e ben presto si sparse la voce della miracolosa guarigione avvenuta per mano della bagiue, giungendo alle orecchie della madre dell’altro bambino gobbo. Scaltra e determinata a liberare il figlio di quel peso che deturpava l’immagine sociale dell’intera famiglia, quella sera la donna costrinse il suo bambino a trascorrere la notte fuori dalla città. A nulla valsero i suoi pianti di paura e il rumore dei suoi pugni che battevano sul legno delle porte, orbite chiuse ai suoi capricci. E anche quella notte, le bagiue tornarono, attirate dal pianto. Quando videro il secondo bambino deforme, si sentirono sfidate e offese e, per dimostrare il rispetto che meritavano, in tutta risposta donarono una seconda gobba al povero sventurato. La madre ne restò scioccata, così come il bambino. Ma infine, resesi conto che un essere innocente non poteva pagare per la superbia dei propri genitori, le streghe furono mosse a compassione e guarirono anche il secondo bimbo gobbo, ricevendo la gratitudine e il rispetto dell’intera comunità che ancora oggi ricorda con affetto l’episodio.

Si tratta di una storia, questa, che mescola superstizione ad antica saggezza popolare, una fiaba che intreccia le sue radici con storie assai simili provenienti da altre parti d’Europa e del mondo e dalla quale emergono diversi tratti interessanti della strega, o meglio, dell’archetipo della Donna di Conoscenza, che col tempo ha assunto diversi nomi: Herbana, Strologa, Janara, Masca, Cogas, Diana, Domina Herbarum… Tutti termini popolari e dialettali che descrivono le doti taumaturgiche di queste donne, qualità che non erano scisse dalle ombre e dal buio con cui spesso andavano a braccetto; un’oscurità che spaventa, ma che ha un fondamento ben preciso e una spiegazione forse più luminosa di quanto saremmo portati a credere dalla cultura in cui abbiamo vissuto e che ci influenza ancora oggi.

Le antenate delle streghe

Volendo provare a contattare una verità alternativa a quella che ci è sempre stata tramandata da leggende e racconti popolari, volti a esorcizzare ciò che non si conosceva e che, perciò, spaventava, proseguiamo il nostro viaggio andando alla ricerca degli indizi storici più arcaici, suggeriti anche dagli studi archeologici, uniti a quelli della mitologia e del sistema di credenze dei primordi, quando l’essere umano viveva in modo più ferino, a stretto contatto con le energie telluriche e di tutti gli altri elementi che compongono la realtà naturale.

C’è stato un tempo, anche assai recente, in cui le storie di streghe si narravano intorno al focolare. Tali racconti servivano a intrattenersi durante il periodo più freddo dell’anno, dai primi giorni di novembre e fino alla fine di marzo, e animavano le case di Triora e del suo territorio.

A essere raccontate erano vicende vere, ma come accade sempre nella tradizione popolare, la storia ha finito per essere condita e ricamata, tanto da sfociare nella leggenda.

I racconti di bagiue sono spesso ambientati presso le grotte e i corsi d’acqua. Alle streghe era attribuita la capacità di assumere forma animale, come di rane e rospi o di rapaci notturni. Proviamo, dunque, a vedere se in tutto questo ci sia un fondamento e, per farlo, scaviamo fra le scoperte archeologiche di questa valle plasmata dal torrente Argentina.

Sono diverse le cavità rocciose disseminate nel territorio di Triora, molte con nomi riconducibili al mondo magico e naturale, come il Buco del Diavolo in località Borniga o la Tana della Volpe dirimpetto a Loreto. Sono appellativi non privi di criterio, che rimandano alla demonizzazione avvenuta in epoca cristiana.

Qui gli scavi hanno restituito reperti che testimoniano la devozione dei nostri antenati per la Madre Terra, tanto da affidare al suo grembo – la grotta – i defunti, cosicché tornassero nel suo utero cosmico per rinascere (Per approfondire puoi leggere il mio articolo "Riti sepolcrali preistorici in Valle Argentina - Nel ventre della Grande Madre").

La Grande Madre primordiale era in ogni cosa, esattamente come la natura dalla quale non era affatto scissa: lei era la vita che risorgeva a primavera, era nelle nuove nascite che animavano la comunità, nel regno animale e in quello vegetale, ma la sua divina presenza era anche nella morte e nel disfacimento della carne, così come nelle tempeste naturali e nella potenza di cataclismi e calamità.

I nostri antenati avevano una spiritualità incentrata sulla donna e i suoi cicli, sul suo rispecchiare le caratteristiche della Grande Madre. Questa connessione profonda con la natura portò gli uomini e le donne preistorici a scorgere ovunque la presenza della Dea.

Così le civette e i rapaci, che regnano sulla notte, divennero simbolo della morte e della rinascita che ne sarebbe seguita, mentre le rane e i rospi, per la loro essenza sia acquatica che terrestre, veicolavano trasformazione, rigenerazione e fertilità. L’acqua, poi, era tenuta in altissima considerazione, poiché nell’immaginario arcaico era paragonata al liquido amniotico e, perciò, alla vita. I nostri antenati non mancarono di utilizzare tali figure nell’arte, soprattutto quella destinata a uso sepolcrale. E civette, rane, uova e simboli acquatici compaiono anche nei ritrovamenti delle grotte trioresi.

Ma torniamo alle nostre streghe, conosciute come bàgiue, bàggiure, bàzure. Questi termini dialettali condividono la radice con un’altra parola ligure: baggiu, il rospo. La corrispondenza etimologica di questi nomi potrebbe avere radici archetipiche arcaiche, riconducibili proprio all’antica Dea della vita, della morte e della rigenerazione, o alle sue sacerdotesse, donne fiere, ispirate dal divino che le abitava e perciò detentrici di potere e carisma, che utilizzavano nel presiedere ai riti di passaggio, tra cui anche la morte.

E allora, l’origine di quella che ancora oggi chiamiamo col termine strega è forse da connettersi a ciò che c’è di più semplice e naturale nell’esistenza umana, laddove “strega”, bagiua, è colei che possiede una sensibilità raffinita, ferina, perfettamente allineata con il Creato di cui conosce i segreti, poiché li possiede dentro di sé e li manifesta attraverso il suo vivere.

Le donne che furono accusate erano spesso conoscitrici di erbe e rimedi medicamentosi, levatrici, guaritrici… e, come tali, avevano il compito di risanare gli strappi sulla tela della salute, di guidare verso la luce di questo mondo i nuovi nati… Ma va da sé che, per fare ciò, dovessero conoscere anche i segreti della morte, cosa che ogni donna sperimenta in sé a ogni ciclo mestruale, e questo non poteva ricevere approvazione e riconoscimento in una società che ha fatto del controllo, del dolore, del conflitto, della linearità, della razionalità e dell’antropocentrismo il suo fondamento. Come si può accettare ciò che non si può spiegare con la ragione e con il calcolo? Che timor panico suscita ciò che esula dall’umano controllo per sfociare nel divino, nel “soprannaturale”?

Le donne e le bagiue erano – e sono tuttora – legate a Madre Natura in modo indissolubile, così come lo è anche l’uomo, ma il sesso femminile ha una predilezione per il dare e il togliere, il prendere e il restituire, rispecchiando e materializzando in modo tangibile e inequivocabile nel suo corpo il ciclo eterno che regola ogni cosa. È la stessa ciclicità che si manifesta nel susseguirsi delle stagioni, nei poli opposti di Calendimaggio e Ognissanti, così come nelle ore del giorno e della notte, nelle fasi lunari. Spetta all’essere umano reimparare a vedere quanto luce e buio, vita e morte siano strettamente interconnessi, abbracciandoli e riconoscendoli anche dentro di sé.

© MagMel

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